martedì 26 marzo 2013

Sogni ad occhi aperti: il cinema compreso con l'emozione. Una lettura del film "JFK-Un caso ancora aperto"

di  Adriano Della Starza
Docente di latino e greco


JFK, USA 1991, Drammatico, durata 200'   
Quando mi invitano a parlare di cinema, mia viscerale passione, per commentare o semplicemente suggerire qualche film di qualità, la mia prima reazione è l’entusiasmo, seguito dalla frenesia, fatalmente destinata a sfociare nello sconforto. Imponenti mi appaiono gli ostacoli su cui avere la meglio, laceranti i dubbi che m’attanagliano: da dove partire, quale film scegliere, che cosa dire di originale o di interessante, che cosa scrivere che invogli la visione o la rivisitazione di un’opera cinematografica.

Per motivi che non so spiegare fino in fondo, vorrei spendere qualche parola su un robusto ed incalzante film-inchiesta degli anni Novanta, di sicuro tra i migliori lavori di Oliver Stone (regista due volte premio Oscar, nell’86 per Platoon e nell’89 per Nato il quattro luglio): trattasi di JFK-un caso ancora aperto che, al momento della sua uscita nelle sale nel 1991, destabilizzò non poco le coscienze americane, frantumò certezze che sembravano consolidate sull’omicidio di John F. Kennedy, urlò verità scomodissime sul misfatto di Dallas con una potenza espressiva, verbale e visiva che ancora oggi resta impressa negli occhi, nella mente, nel cuore, nella memoria degli spettatori.

Se è vero che una risorsa della democrazia occidentale è creare al suo interno i propri preziosi anticorpi, per combattere le ingiustizie che ne mimano lo statuto principale, ciò è ancora più vero per questa opera dirompente di Oliver Stone, figlio di un agente di borsa, ex-combattente in Vietnam, che con JFK scrive il primo capitolo di una sorta di ideale trilogia che scandaglia il problematico rapporto tra governo statunitense e sporca guerra nel sud-est asiatico (gli altri due film, meno riusciti ma comunque interessanti, sono Gli intrighi del potere - Nixon e Tra cielo e terra).

JFK è dedicato ai giovani “nel cui spirito continua la ricerca della verità”, e la verità è proprio il valore supremo del vivere civile in nome del quale il protagonista, Jim Garrison, Procuratore Generale dello Stato della Louisiana negli anni Sessanta sacrifica la sua vita, i suoi affetti, la sua carriera. I giovani oltre a percepire e far proprio il messaggio etico sotteso al film, hanno bisogno di storie raccontate in questo modo: l’impostazione classica si sposa con un ritmo serrato, spiazzante, allusivo; ad ogni scena la trama si infittisce di quesiti stimolanti, riflessioni profonde e critiche sulla storia, la politica, il potere, la libertà.

Il film si apre con sei minuti densi di informazioni storiche sulla vittoria di Kennedy contro Nixon, sui rapporti intrattenuti dopo la sua elezione alla Casa Bianca con Cuba e l’Unione Sovietica, fino ad arrivare al fatale giorno di novembre del 1963 in cui si consumò in soli sei secondi l’ineluttabile destino scritto da altri per il Presidente che voleva cambiare le cose. Il formato quadrato, “televisivo”, dell’immagine incornicia questo incipit come se si trattasse di un documentario, al termine del quale si passa al formato cinematografico “largo”, 16/9, in cui sono raccontate le restanti 3 ore del film. Chiaro è il rimando, in tale struttura in cui il film ruota attorno all’evento narrato nel “documentario iniziale”, al capolavoro di Orson Welles Quarto potere, con cui JFK condivide la lucida riflessione sull’INESISTENZA di una verità oggettiva, sacrificata sull’altare del relativismo parossistico: esistono dieci, cento, mille verità, come le tessere di un infinito mosaico impossibile da ricostruire nella sua interezza. Resteranno sempre coni d’ombra, lati oscuri, enigmi nascosti dentro altri enigmi, voragini di incomprensibilità. Per esprimere tale amara consapevolezza sull’uomo e la storia (tanto più amara se si pensa che la verità di un evento sfugge anche quando se ne ha una testimonianza filmata, come nel caso dell’omicidio di Dallas ripreso da una pellicola amatoriale), il regista si serve della maestria sopraffina dei montatori Joe Hutshing e Pietro Scalia (premiati con l’Oscar) che assemblano i fotogrammi di JFK in modo assolutamente innovativo per l’epoca: immagini di repertorio, documenti e testimonianze storiche, sequenze ricostruite con precisione filologica, scene rivelatrici si accavallano, si intrecciano, si alternano, si ripetono con un ritmo forsennato e straniante capace di far apprezzare nuovi dettagli ad ogni visione, si ripresentano da ottiche e punti di vista sempre differenti.

Il bianco e nero è squarciato dal colore, il colore si smorza nel bianco e nero. L’intera tavolozza cromatica (alla fotografia andò il secondo Oscar vinto dal film) è magistralmente utilizzata per evocare l’imperscrutabilità dei grigi della storia. Realtà, ipotesi, verità, finzione, suggestione si aggrovigliano creando un caos in grado di generare una forma più alta di significato. La teoria del complotto che uccise il Presidente è quella del Procuratore della Louisiana Jim Garrison (interpretato da un  dimesso, sobrio e a tratti commovente Kevin Costner) che fu il primo a portare in tribunale nel 1969 il caso, insabbiato con frettolosa e dubbia superficialità dalla Commissione Warren, che individuò in un solo uomo, Lee Oswald, l’unico esecutore dell’omicidio. I fatti sembrano dimostrare il contrario.

I sei secondi che decretarono la fine del sogno americano, la perdita dell’innocenza, la “scomparsa della frontiera”, la brusca presa di coscienza del popolo dello zio Sam non andarono come raccontano i libri di storia, gli spari non furono tre come recitano gli annali, il Governo sapeva più di quanto disse, i documenti che celano importanti elementi per giungere alla verità saranno TOP SECRET fino al 2017 (proprio grazie a questo film la data è stata cambiata, dovevano esserlo fino al 2029), il caso è ancora aperto, la storia è ancora da scrivere.

I giovani e la parte idealista di ogni animo umano non possono non restare folgorati dagli ultimi 40 minuti del film, ambientati in un’aula di tribunale. La passione e l’avvolgente dialettica del Procuratore Garrison incantano, stordiscono e allo stesso tempo indignano e sconvolgono ad ogni visione. Siamo chiamati a chiederci non cosa può fare il nostro Paese per noi, ma cosa possiamo fare noi per il nostro Paese. “Il popolo deve difendere il proprio Paese dal suo governo”. Viene il dubbio che non l’abbiamo fatto mai abbastanza.

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