Una riflessione del prof. Alberto Pellai sul tentato suicido della dodicenne di Pordenone. Nel post c'è un richiamo al libro "Girl R-Evolution. Diventa ciò che sei" (ed. De Agostini) in cui si dedicano due capitoli che riguardano proprio casi simili a quello considerato.
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Il caso della preadolescente di Pordenone, che si è buttata dal secondo piano perché non riusciva più ad affrontare i suoi compagni di classe e non voleva perciò tornare a scuola, ha sconvolto tutti. Speriamo che la sua sia una storia a lieto fine. La vita, grazie ad una tapparella che ha smorzato l’impatto della caduta, ha offerto a questa ragazza la possibilità di poter dare voce al proprio dolore. Non da morta, ma da viva. E probabilmente per lei adesso tutto sarà diverso. Perché questa ragazza capirà che si può dire che si sta male e perché si sta male. E anche che non si deve avere paura a condividere il proprio dolore e il proprio senso di angoscia raccontandolo a chi ci può dare aiuto. Tutti i nostri figli devono sapere che quando in mezzo al gruppo dei pari ci si sente esclusi, umiliati, denigrati, danneggiati chiedere aiuto agli adulti è non solo necessario. A volte può addirittura salvarci la vita.
Credo che anche per tutti i suoi amici, il fatto che la ragazza si sia salvata, rappresenti un lieto fine e un’opportunità per rimediare a tutto il male che le hanno fatto. Non oso immaginare quale avrebbe potuto essere il senso di colpa per aver causato una disgrazia irreparabile ad una propria compagna. Di classe e di vita. Il suo gesto estremo ha fatto vedere a tutti il dolore che deriva dall’essere presi in giro, dall’essere identificati come vittima designata. Io immagino che se oggi parlassi con i suoi compagni di classe tutti si dichiarerebbero tristi e pentiti. Ma probabilmente la frase più frequente che mi sentirei dire è: “Noi pensavamo di fare soltanto qualche piccolo scherzo quando la prendevamo in giro. Non ci avevamo pensato che lei avrebbe potuto prendersela così tanto, stare così male”.
Eh, già: la frase più frequente oggi, soprattutto tra i preadolescenti che combinano qualche pasticcio serio – a volte al limite del reato – è proprio questa: non ci avevamo pensato. Ed hanno ragione: perché dalla mattina alla sera vivono immersi in una vita che non lascia spazio al pensiero. Corrono, si spostano da un luogo all’altro, da un sito all’altro, da un videogioco all’altro, da un brano Mp3 all’altro. E non stanno mai fermi a pensare. Ad annoiarsi. A riflettere su chi sono, su chi vorrebbero essere, su che cosa sta succedendo alle persone che hanno intorno.
La vita dei nostri figli è una sequenza ininterrotta di “agiti”, di cose che vengono fatte, spesso senza nemmeno essere pensate. Mi annoio? Non devo nemmeno pensare a come venire fuori da quello stato di noia, perché in automatico nella mia stanza c’è musica di sottofondo, lo schermo del PC mi bombarda con immagini e video, i miei gruppi WhatsApp continuano a farmi arrivare messaggi. E io allora sto dentro ad un flusso di stimoli che non si spegne mai, che non dà mai requie al mio funzionamento mentale.
Iperstimolati ma sconnessi. Iperattivi ma privi di significati per ciò che fanno. E’ paradossale che la gran parte di noi genitori stia crescendo figli che - invece di essere là fuori nel mondo, ad imparare la vita e le relazioni - si trovano chiusi nella loro stanza, spesso sdraiati sul divano o sul letto, con in mano un cellulare o un tablet. Vivono dentro uno schermo, ma non imparano nulla, non sentono nulla, non si attrezzano con le competenze emotive e pro-sociali che poi, là fuori, nella vita vera sono di importanza fondamentale.
Ed ecco allora che in quegli sprazzi di socialità vera, di convivenza con persone vere che stanno al loro fianco, le cose importanti della vita, ovvero le emozioni e le relazioni, vengono trattate con la stessa superficialità con cui ci si muove dentro ad una chat di facebook, con cui si scrive un messaggio su WhatsApp. Si sta dentro alle relazioni, si vivono esperienze, si dicono cose, ma tutto avviene così, dentro ad un flusso liquido, senza rielaborazioni, senza costruzioni di significato, senza comprendere il senso profondo del nostro essere al mondo, nel qui ed ora con un progetto di vita che va presidiato, immaginato, fantasticato, pensato. Perché altrimenti il progetto di vita diventa una semplice sequenza di azioni che si susseguono senza un filo rosso che le unisce. E poi quando succede qualcosa che ci obbliga a rivedere ciò che è stato, l’unica frase che si riesce a dire è: Non ci avevo pensato.
I nostri figli non possono imparare a pensare alla loro vita, se noi adulti per primi non dedichiamo allo spazio del pensiero educativo e del progetto educativo un tempo adeguato. Spesso, anche noi per primi, siamo mamme e papà che corrono, che si connettono col mondo attraverso tutti i nostri strumenti tecnologici, che vanno talmente di fretta che quando un figlio vorrebbe riflettere con noi su qualche cosa che succede nel suo spazio di vita, siamo costretti a rispondergli: “Scusami tanto, ma adesso non ho tempo. Ne parliamo un’altra volta”. Oppure, visto che abbiamo il computer in mano, gli diamo una risposta veloce, quasi disattenta, senza nemmeno guardarlo negli occhi. O ancora, gli diciamo, a volte anche con voce un po’ seccata: “Ma non vedi che sto lavorando? Smettila di darmi fastidio”. Così loro vanno nella loro stanza, si sdraiano, non parlano più, non pensano più, stanno nel flusso liquido dell’iperstimolazione, nei quali sono immersi.
E’ tempo di imparare di nuovo a guardarsi negli occhi. Di “perdere tempo” per parlare della vita ai figli e con i figli. Di fare cose insieme così che quando stiamo condividendole, loro sentono di “essere sentiti da noi”. E quindi, magari, decidono di raccontarsi. Di dire il bello e il brutto che riempie la loro vita.
Ecco, io spero che per la ragazza di Pordenone, per i suoi genitori, per i suoi compagni, per i docenti della loro scuola sia arrivato il tempo di fare tre cose:
a) Guardarsi negli occhi
b) Parlarsi con sincerità
c) Imparare a pensare che tutto ciò che facciamo (e tutto ciò che non facciamo) ha delle conseguenze per noi e per chi ci vive a fianco.
Nel mio nuovo libro “Girl R-Evolution. Diventa ciò che sei.” (De Agostini) dedico due capitoli alla prevenzione dei fenomeni che hanno portato al dramma di Pordenone. In un capitolo rifletto con le lettrici sull’importanza di riconoscere le “Api Regine” che a volte si muovono all’interno dei loro gruppi informali, ragazze che dettano le regole di inclusione e di esclusione dal gruppo, ragazze che spesso sono attrici e creatrici di spaventosi fenomeni di bullismo, tutti al femminile.
In un altro capitolo invece parlo alle ragazze di tutti i rischi associati alla loro intensa frequentazione del web e all’ utilizzo degli strumenti tecnologici. Cyberbullismo e sexting sono due fenomeni che spesso hanno nelle ragazze due vittime privilegiate.
Quasi nessun adulto aiuta le ragazze a costruire “spazi del pensiero” su questi temi. Per questo spesso le cose accadono così, quasi per caso. Forse è arrivato il momento di dire ai nostri figli: Abbiamo il dovere di “perdere un po’ di tempo” insieme per pensare un po’ a ciò che sta succedendo nelle nostre vite.
E credetemi, non sarà tempo perso.
Se queste considerazioni vi sembrano condivisibili, allora fate arrivare le mie parole ad altri genitori, ad educatori e docenti. A tutti coloro che vogliono costruire una comunità educante. Condividete questa riflessione. Come avete parlato e come parlerete ai vostri figli del fatto di Pordenone?
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