"Cari insegnanti italiani, guadagnate poco ma lavorate meno degli altri".
Sembra dire proprio questo uno studio pubblicato dal The Economist il 26 aprile del 2016, che può far luce su molti aspetti della professione insegnate in Italia, rispetto al salario percepito dai docenti, alle ore di lavoro per ogni settimana e ai risultati conseguiti dagli studenti nelle indagini OCSE-PISA.
Si tratta di questioni che sono spesso alla ribalta della cronaca, e forse in questo caso abbiamo la possibilità di sbarazzarci di alcuni luoghi comuni che spesso, nei dibattiti e nelle proteste, vengono chiamati in causa.
Sembra dire proprio questo uno studio pubblicato dal The Economist il 26 aprile del 2016, che può far luce su molti aspetti della professione insegnate in Italia, rispetto al salario percepito dai docenti, alle ore di lavoro per ogni settimana e ai risultati conseguiti dagli studenti nelle indagini OCSE-PISA.
Si tratta di questioni che sono spesso alla ribalta della cronaca, e forse in questo caso abbiamo la possibilità di sbarazzarci di alcuni luoghi comuni che spesso, nei dibattiti e nelle proteste, vengono chiamati in causa.
Prima di trarre conclusioni di carattere generale dal grafico riportato in basso, possiamo già farci un'idea della situazione italiana rispetto ai 3 parametri prima specificati, confrontandola con quella degli altri Paesi.
In riferimento agli stipendi, quelli dei docenti italiani sono superiori soltanto rispetto ad altri Stati il cui PIL generale è di gran lunga più basso, fatta eccezione per lo stato di ISRAELE e l'ISLANDA.
Gli insegnanti guadagnano meno solo in Messico, Islanda, Israele, Cile, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca ed Estonia.
Più o meno simile, invece, è lo stipendio di un insegnante italiano paragonandolo ad un collega francese e portoghese. Per il resto, le busta paga degli altri paesi dell'OCSE supera quella degli italiani.
Dal grafico, tuttavia, emerge un dato che raramente si tiene in considerazione, soprattutto in occasione delle rimostranze salariali: gli insegnanti italiani, insieme a quelli cileni, sono quelli che lavorano meno tra tutti quelli considerati nell'indagine. Anzi, a fronte di un numero simile di ore lavorate in una settimana, un docente cileno guadagna proporzionalmente 10 punti di salario in meno.
Si potrebbe obiettare, ragionevolmente, che molte ore che gli insegnanti italiani dedicano al lavoro non sono conteggiate nel grafico in questione: si tratta del tempo utilizzato per la preparazione dei compiti e la loro correzione, per la strutturazione delle lezioni e il reperimento dei materiali, per l'aggiornamento professionale; sono ore che nessuno è in grado di quantificare.
Eppure una tale obiezione, e chi scrive parla da insegnante, non è sufficiente per ignorare il dato di fatto, per cui effettivamente il monte ore "ufficiale" dedicato al lavoro è tra i più bassi in assoluto tra i paesi OCSE; e questo genera altre considerazioni:
La prima: non sappiamo se, effettivamente, i colleghi di altri paesi, impegnati settimanalmente per più ore, lavorino, anche loro, oltre agli orari contrattuali. Personalmente, avendo incontrato colleghi francesi, bulgari, polacchi, inglesi e romeni, ritengo che la situazione sia simile. Tutti, più o meno, svolgiamo del lavoro extra non riconosciuto.
La seconda: se davvero gli insegnanti italiani vogliono un adeguamento degli stipendi a quello di altri paesi (quei paesi che generalmente prendiamo come esempio di virtù e di qualità della vita), devono necessariamente chiedere un adeguamento corrispettivo dell'orario settimanale. La mole enorme di insuccessi nelle rivendicazioni sindacali ha ormai dimostrato che le strade da percorrere sono altre: non la lamentela espressa nei cortei e negli scioperi senza nessuna proposta. E la proposta è il riconoscimento oggettivo del lavoro che gli insegnanti (quelli seri, che amano il loro mestiere) svolgono ogni giorno al di là dell'orario contrattuale.
Rispetto a ciò gli ostacoli sono molti. Uno Stato che, forse, preferisce investire soldi in altro anziché nell'educazione e nell'istruzione è certamente quello principale; ma anche, bisogna riconoscerlo, molti insegnanti a cui la situazione sta bene così com'è, anche se tentano di dissimularlo sbraitando timidamente quando c'è da sbraitare. Sono coloro che vedono il mestiere del docente come semplicemente un modo per arrotondare rispetto al loro principale lavoro, che svolgono altrove; sono quelli che non si riconoscono come professionisti dell'apprendimento, ma come impiegati in stile "secondo dopoguerra"; sono quelli che vanno a lavorare con sufficienza senza aver bisogno di farlo, che sanno e vogliono accontentarsi di uno stipendio decente e un numero sufficiente di ore libere durante la giornata.
Perché, diciamocelo francamente, nessuno elogia chi si dà da fare fuori dalle ore di contratto - è vero - ma nessuno biasima chi non muove uno spillo oltre l'orario di servizio o chi improvvisa le lezioni, rigorosamente frontali, riproponendo di continuo schemi e atteggiamenti inefficaci. Ed è questo il punto chiave.
E allora, perché non proporre una ristrutturazione dell'orario di servizio dei docenti, aumentando le ore effettive sul posto di lavoro (che farebbero lo stesso senza alcun riconoscimento) come avviene in Francia, Inghilterra, Germania (parlo qui per esperienza personale), rendendo più efficienti le lezioni e l'orario scolastico e, come controparte, pretendendo un aumento consistente degli stipendi, in linea con i Paesi che tanto invidiamo?
L'ultima considerazione che si può trarre dallo studio in questione, ed è quella di carattere generale a cui facevamo accenno all'inizio, è la seguente: perché un sistema scolastico funzioni non è necessario né sufficiente aumentare la spesa destinata all'istruzione. Sembrerebbe una considerazione controintuitiva, eppure è proprio così. I risultati dell'Estonia sono paradigmatici: stipendi bassissimi, orario settimanale medio basso (ma di molto superiore a quello italiano), eppure i risultati nelle indagini OCSE sono in linea con quelle del Giappone, dell'Australia e del Canada. C'è da meditare. Molto.
Si potrebbe obiettare, ragionevolmente, che molte ore che gli insegnanti italiani dedicano al lavoro non sono conteggiate nel grafico in questione: si tratta del tempo utilizzato per la preparazione dei compiti e la loro correzione, per la strutturazione delle lezioni e il reperimento dei materiali, per l'aggiornamento professionale; sono ore che nessuno è in grado di quantificare.
Eppure una tale obiezione, e chi scrive parla da insegnante, non è sufficiente per ignorare il dato di fatto, per cui effettivamente il monte ore "ufficiale" dedicato al lavoro è tra i più bassi in assoluto tra i paesi OCSE; e questo genera altre considerazioni:
La prima: non sappiamo se, effettivamente, i colleghi di altri paesi, impegnati settimanalmente per più ore, lavorino, anche loro, oltre agli orari contrattuali. Personalmente, avendo incontrato colleghi francesi, bulgari, polacchi, inglesi e romeni, ritengo che la situazione sia simile. Tutti, più o meno, svolgiamo del lavoro extra non riconosciuto.
La seconda: se davvero gli insegnanti italiani vogliono un adeguamento degli stipendi a quello di altri paesi (quei paesi che generalmente prendiamo come esempio di virtù e di qualità della vita), devono necessariamente chiedere un adeguamento corrispettivo dell'orario settimanale. La mole enorme di insuccessi nelle rivendicazioni sindacali ha ormai dimostrato che le strade da percorrere sono altre: non la lamentela espressa nei cortei e negli scioperi senza nessuna proposta. E la proposta è il riconoscimento oggettivo del lavoro che gli insegnanti (quelli seri, che amano il loro mestiere) svolgono ogni giorno al di là dell'orario contrattuale.
Rispetto a ciò gli ostacoli sono molti. Uno Stato che, forse, preferisce investire soldi in altro anziché nell'educazione e nell'istruzione è certamente quello principale; ma anche, bisogna riconoscerlo, molti insegnanti a cui la situazione sta bene così com'è, anche se tentano di dissimularlo sbraitando timidamente quando c'è da sbraitare. Sono coloro che vedono il mestiere del docente come semplicemente un modo per arrotondare rispetto al loro principale lavoro, che svolgono altrove; sono quelli che non si riconoscono come professionisti dell'apprendimento, ma come impiegati in stile "secondo dopoguerra"; sono quelli che vanno a lavorare con sufficienza senza aver bisogno di farlo, che sanno e vogliono accontentarsi di uno stipendio decente e un numero sufficiente di ore libere durante la giornata.
Perché, diciamocelo francamente, nessuno elogia chi si dà da fare fuori dalle ore di contratto - è vero - ma nessuno biasima chi non muove uno spillo oltre l'orario di servizio o chi improvvisa le lezioni, rigorosamente frontali, riproponendo di continuo schemi e atteggiamenti inefficaci. Ed è questo il punto chiave.
E allora, perché non proporre una ristrutturazione dell'orario di servizio dei docenti, aumentando le ore effettive sul posto di lavoro (che farebbero lo stesso senza alcun riconoscimento) come avviene in Francia, Inghilterra, Germania (parlo qui per esperienza personale), rendendo più efficienti le lezioni e l'orario scolastico e, come controparte, pretendendo un aumento consistente degli stipendi, in linea con i Paesi che tanto invidiamo?
L'ultima considerazione che si può trarre dallo studio in questione, ed è quella di carattere generale a cui facevamo accenno all'inizio, è la seguente: perché un sistema scolastico funzioni non è necessario né sufficiente aumentare la spesa destinata all'istruzione. Sembrerebbe una considerazione controintuitiva, eppure è proprio così. I risultati dell'Estonia sono paradigmatici: stipendi bassissimi, orario settimanale medio basso (ma di molto superiore a quello italiano), eppure i risultati nelle indagini OCSE sono in linea con quelle del Giappone, dell'Australia e del Canada. C'è da meditare. Molto.
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